Mobbing e straining: come tutelarsi?
Il luogo di lavoro dovrebbe rappresentare un ambiente sicuro, amichevole e rispettoso, tale da poter svolgere regolarmente le proprie attività. Sfortunatamente non sempre è così e i casi di mobbing e straining tendono ad aumentare assieme alle trasformazione del mondo del lavoro. Ma come si può riconoscere un caso di mobbing e straining? In che modo posso tutelare i miei diritti?
Il “mobbing” (dall’inglese to mob, che in etologia significa spingere il lupo fuori dal branco) viene definito dalla dottrina e dalla giurisprudenza come l’insieme di quei comportamenti persecutori posti in essere da datore di lavoro, intermedi o colleghi, attuati con specifica determinazione e continuità, tali da arrecare danni rilevanti alla condizione psicofisica del lavoratore, anche al solo fine di allontanarlo dalla collettività nel cui ambito svolge la propria opera .
Si tratta, dunque, di tutta una serie di atteggiamenti volti ad isolare, mortificare o umiliare il lavoratore a tal punto da provocare un’alterazione della sua condizione psicofisica, ledendo i diritti alla salute, dignità e alla personalità morale del lavoratore, tutelati dalla nostra Costituzione.
Il mobbing viene detto verticale (bossing) quando gli atteggiamenti ostili vengono intrapresi dal datore di lavoro o comunque da un superiore gerarchico, sia personalmente che mediante i suoi preposti (direttori, capi reparto, ecc.) nei confronti dei sottoposti. In quest’ultimo caso, la responsabilità civile sarà comunque riconosciuta anche al datore, ai sensi dell’art. 1228 c.c., che stabilisce che “il debitore che nell’adempimento delle obbligazioni si vale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi e colposi di costoro”.
Quando invece sono proprio i colleghi che provocano stress al lavoratore con “battute divertenti” o scherzi di poco gusto (nella migliore delle ipotesi..), si parla di mobbing orizzontale. Meno frequente il caso di mobbing ascendente, come ad esempio un ammutinamento dei lavoratori nei confronti del datore al fine di delegittimare la sua posizione gerarchica.
Per proteggerci da tutta questa pioggia di atteggiamenti ostili e stressanti dobbiamo innanzitutto servirci del nostro ombrello più forte, l’art 2087 c.c, il quale statuisce due obblighi fondamentali per il datore di lavoro: l’obbligo di garantire sicurezza nel luogo di lavoro e quello di astenersi dal creare situazioni potenzialmente rischiose per la salute e la dignità dei suoi dipendenti.
Senza dimenticare che la vittima di mobbing può comunque far valere la responsabilità extracontrattuale degli autori materiali delle vessazioni sulla base dell’art 2043 c.c, che codifica il divieto di ledere l’altrui diritto.
Si tratta quindi di una responsabilità, che sussiste non soltanto quando sono state omesse, con colpa o dolo, le misure necessarie per la tutela dei lavoratori, ma altresì quando i comportamenti sono tali da danneggiare direttamente la salute o la dignità del lavoratore stesso.
La prova del mobbing, tuttavia, non è semplice. La giurisprudenza recente richiede severamente:
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L’ esistenza di un contratto tra lavoratore e datore mobber;
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La prova delle condotte ostili durature e reiterate;
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La volontà persecutoria del datore;
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L’esistenza di un danno patrimoniale o non patrimoniale;
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Infine il nesso di causalità tra condotta e danno.
Molto importanti, e altrettanto complesse sono le prove della reiterazione e durata degli atti ostili, nonché dell’intento persecutorio dell’autore di mobbing. Queste caratteristiche, infatti, sono essenziali per differenziare la condotta di mobbing da quella, simile ma diversa, di straining e in questo caso è la giurisprudenza che ci dà una mano.
Con il termine straining ci si riferisce a determinate condotte da parte del datore che pregiudicano i diritti fondamentali del dipendente attraverso condizioni lavorative “stressogene” che, nonostante siano prive della presenza di un intento persecutorio, possono ugualmente determinare la sussistenza di un danno (Tribunale Milano sez. lav., 23/04/2019, n.1047).
Il termine deriva, infatti, dal verbo inglese “to strain” che significa “mettere sotto pressione”. È possibile comprendere la particolarità della fattispecie a partire da un caso concreto:
Una dottoressa di un’azienda ospedaliera denunciava due episodi di comportamenti aggressivi da parte di un primario, con particolare rilievo al plateale gesto di strappare un documento ricevuto dalla vittima con l’aggiunta di molestie verbali, in ragione di una storica tensione tra i due medici. In sede civile, la Corte d’appello di Brescia escluse la presenza di mobbing, proprio per l’assenza di un’oggettiva frequenza della condotta ostile. Cionondimeno venne confermata la responsabilità del medico primario e dell’azienda ospedaliera, perché la condotta episodica aveva comunque provocato conseguenze psicologiche permanenti per la vittima, quali ansia cronica e umore depresso, qualificando la condotta ostile come straining ( Corte di appello di Brescia 311/2013).
Lo straining potrebbe essere dunque un intelligente espediente per superare la difficoltosa prova dello scopo persecutorio, richiesta per la condotta di mobbing. Oltretutto, la giurisprudenza recente sembra non suffragare più la prassi di negare la presenza di un danno solo per il carattere episodico di una condotta, senza indagare il peso e le conseguenze derivanti da essa.
Ancora una volta, dunque, il diritto vivente si trova ad inseguire un legislatore non troppo attento nel disciplinare le nuove contingenze della vita concreta. In ogni caso, non bisogna demordere. D’altronde, potrebbe essere peggio. Potrebbe piovere! (Frankenstein Junior, 1975)
(Dott. Giovanni Scudero)