Pubblico Impiego: gli errori e l’inerzia della Pubblica Amministrazione spesso ricadono sul lavoratore

Con una sempre maggiore frequenza il nostro Studio legale è chiamato a dirimere questioni riguardanti i diritti negati di soggetti che hanno coronato il loro sogno di entrare negli organici di una pubblica amministrazione, ma si ritrovano loro malgrado a non poter lavorare, a causa di ritardi od errori nelle relative procedure di assunzione.

Vale la pena di annotare al proposito due dei molti episodi tratti dalle cronache giurisprudenziali di questi giorni, che rivestono carattere particolarmente emblematico.

 

Primo caso

Il primo caso riguarda una donna che, vinto un concorso pubblico da dirigente presso una ASL, ha dovuto aspettare ben sei anni prima di vedere ufficializzata la propria assunzione: infatti la graduatoria definitiva che la vedeva vincitrice risaliva all’anno 2006, ma veniva poi assunta solo nell’aprile del 2012.

La Corte di Cassazione (Cass. Civ., Sez. VI-L, ord. 22 giugno 2022, n. 20092) con una recente pronuncia ha statuito il principio secondo il quale “…non è condivisibile, almeno in senso generale, l’assunto della ricorrente, secondo cui dalla approvazione delle graduatorie deriverebbe di per sé il dovere di assunzione, in quanto essa è  da regolare mediante contratto ai sensi del D.Lgs. n. 165/2001, art. 35, comma 1) e quindi vi è naturalmente un margine di tempo successivo alla ultimazione delle operazioni concorsuali per procedere alla assunzione”.

In buona sostanza, sancisce la Corte che, trattandosi di una Pubblica Amministrazione, la forma scritta del contratto di lavoro è indispensabile a pena di nullità e quindi il rapporto di lavoro non si è costituito automaticamente con la approvazione della graduatoria, come ben potrebbe avvenire nel lavoro privato: pertanto non si è verificato alcun inquadramento retroattivo al momento della vincita del concorso, come invece avrebbe voluto la ricorrente.

Anche la richiesta di risarcimento del danno per il lungo tempo di attesa senza lavoro, avanzata in subordine dalla donna, è stata fortemente ridimensionata dal Giudice. 

Infatti, è stato unicamente riconosciuto alla lavoratrice un ristoro economico, quantificato nelle retribuzioni non percepite di cinque mensilità a fronte di sei anni di attesa, ovvero solo dalla data in cui la stessa ha inviato una formale messa in mora, con cui ha offerto la propria prestazione lavorativa alla P.A. renitente.

Si può davvero dire che anche in ambito di diritti dei lavoratori la Pubblica Amministrazione è sempre la Pubblica Amministrazione…!

 

Secondo caso

Il secondo caso riguarda una lavoratrice che è stata assunta da una società cosiddetta “partecipata” (cioè, una società commerciale, privata ma a controllo pubblico, che fornisce beni o servizi di pubblico interesse) 

Nel caso in commento, il contratto a tempo determinato stipulato con la Partecipata si è rivelato illecito, in quanto “senza causa”, cioè privo della necessaria giustificazione al limite di durata, giustificazione che costituisce condizione necessaria per la sua validità.

A seguito di ricorso della dipendente, il Tribunale del Lavoro di Torino (Trib. Torino, Sez. Lav., Sent. n. 774/2022) si è trovato nuovamente a dover risolvere la dibattuta questione di quale sia la disciplina dei contratti a termine applicabile alle società pubbliche partecipate: se quella generale comune anche al lavoro privato, oppure una qualche disciplina speciale, in ragione della eventuale assimilazione parziale di dette società alle pubbliche amministrazioni.

 Nella sentenza, il Giudice, ha invero riconosciuto quanto sostenuto dalla lavoratrice e cioè che “ai rapporti di lavoro instaurati dalle società a partecipazione pubblica costituite per la tutela di interessi collettivi, quale è la *****, è certamente applicabile la normativa propria  dei rapporti di lavoro privato”.

Applicando alla lettera tale principio, la disciplina propria dei rapporti di lavoro privato in materia di contratti a termine è contenuta nel D.Lgs.n. 81/2015, il quale, all’art. 28, II comma, prevede per il contratto a termine illegittimo due conseguenze negative per il datore di lavoro, tra loro indipendenti: a) la conversione in contratto a tempo indeterminato e b) il pagamento al lavoratore di una indennità onnicomprensiva, sino al corrispondente di dodici mensilità.

Tuttavia, nessuna delle due suddette conseguenze di legge è stata ritenuta applicabile nel giudizio in commento: non la conversione, perché nei ruoli delle società partecipate pubbliche si accede solo per concorso, mentre nel nostro caso si è trattato di una chiamata diretta; né, cosa ancor più grave, la sanzione della indennità onnicomprensiva al lavoratore, in quanto la assunzione senza pubblico concorso della donna ha fatto sì che il contratto di lavoro fosse radicalmente nullo per violazione di norme imperative e, come tale, improduttivo di qualsivoglia effetto sanzionatorio per la Società.

Anche il questo secondo caso, dunque, la natura giuridica pubblica del datore di lavoro ha costituito una sorta di immunità nei confronti di un presidio giuridico posto a tutela del lavoratore, che invece avrebbe avuto piena attuazione nel mondo del lavoro privato.